Secondo FBI e DOJ gli attacchi ransomware devono essere gestiti come gli atti terroristici, perché quando colpiscono infrastrutture critiche causano un disagio analogo.
Gestire gli attacchi ransomware come quelli terroristici. È la nuova politica di contrasto al cyber crime del Federal Bureau of Investigation (FBI) e del Dipartimento di Giustizia statunitense. Il motivo è che i criminali informatici hanno scalato la gerarchia delle vittime, arrivando con
Solar Winds,
Colonial Pipeline e l'azione contro il
sistema sanitario irlandese, a causare danni paragonabili a quelli di un atto terroristico.
Il primo a parlarne era stato, a inizio giugno, il direttore dell'FBI Christopher Wray nel corso di una lunga
intervista con il Wall Street Journal in cui ha argomentato che la sfida posta dagli attacchi informatici è in qualche modo simile a quella posta dagli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001.
Il fine ultimo degli attacchi è quasi sempre differente: i gruppi ransomware come
DarkSide non intendono scatenare panico o paralizzare un Paese, vogliono "solo" intascare grosse somme di denaro. Il problema è che
quando si attacca un'infrastruttura critica come un gasdotto o un servizio sanitario, è inevitabile creare caos e disservizi che possono scatenare panico.
C'è anche un'altra analogia con il terrorismo. I gruppi ransomware oggi non sono piccole organizzazioni a sé stanti che operano in modo indipendente l'uno dall'altro.
Sono parte di un ecosistema, di una grande impresa internazionale. Questo significa che anche qualora onorassero la promessa di consegnare le chiavi per decifrare le informazioni e di cancellare i dati di cui sono in possesso, nulla garantisce che le informazioni compromettenti non siano già passate di mano ad altri gruppi criminali.
Come altri hanno già fatto notare,
le imprese criminali gestiscono gli affari come le imprese legittime. E alcuni esponenti sono talmente bravi nel loro lavoro da nascondere per mesi la propria presenza in una rete target.
La questione politica
Gli Stati Uniti hanno più volte puntato il dito contro la Russia. Putin ha sempre negato ogni coinvolgimento, ma le tensioni geopolitiche fra le due superpotenze sono alte e i sospetti non possono essere liquidati alla leggera. Del resto, posto che i criminali informatici lavorano per soldi, la componente politica è spesso presente dietro le quinte.
Basti pensare ai gruppi APT, ossia ai criminali informatici sponsorizzati dagli stati-nazione.
Guadagnano grazie ai pagamenti erogati da chi commissiona gli attacchi e non dalle vittime, spesso hanno risorse pressoché illimitate, quindi armi più micidiali.
Ci sono poi le situazioni in cui non c'è un vero e proprio sponsor politico che commissiona e finanzia gli attacchi, ma
uno Stato che chiude un occhio. È una delle possibili opzioni per la Russia, che difficilmente si muove per contrastare attivamente o condannare il cybercrime. A patto che gli attacchi danneggino realtà fuori dai confini russi. È uno dei motivi per i quali spesso i malware includono righe di codice che lasciano inattivata la minaccia se il computer è in cirillico.
In questo caso molti esperti di security paragonano la cybersfera alla politica fiscale. Nel mondo ci sono i cosiddetti paradisi fiscali dove si rifugiano coloro che vogliono pagare poche tasse. Per i criminali informatici ci sono Paesi da cui possono operare ininterrottamente senza correre il rischio di essere arrestati.
In questo caso
l'unica ricetta per limitare i danni sono gli accordi globali. Non possono fare miracoli, ma possono combattere più efficacemente la criminalità informatica. Un esempio è la
Joint Cyber Unit della UE, una piattaforma che mira a garantire una risposta coordinata dell'UE alle crisi e agli incidenti informatici su vasta scala e offrire assistenza nella fase di ripresa da tali attacchi.
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